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L'invenzione della Terra (Franco Farinelli, Sellerio 2007, pp. 152) è un esperimento: rappresenta infatti un colto tentativo di dialogo fra gli antichi racconti di creazione (la Genesi, l' Enuma Elis babilonese), i racconti dei viaggi di scoperta (Colombo) e le rivoluzioni scientifiche (Tolomeo, Galileo, ecc.). L'autore del libro in questione, Farinelli, insegna presso il Dipartimento di Discipline della Comunicazione di Bologna, dove presiede anche il corso di laurea magistrale in Geografia e Processi Territoriali.

    Prima di parlare del libro, farò una breve premessa. Farinelli ha partecipato recentemente all'interessante seminario “Cos'è la città?” organizzato dal Quartiere San Donato a Bologna (11 marzo 2008). Era la prima volta che lo sentivo parlare, e mi ha colpito la sua profonda conoscenza del simbolico, e in particolar modo l'ardita analogia che ha usato per spiegare “perché oggi crediamo alle mappe”. Partendo dall'eresia di Berengario, il quale osò ipotizzare che l'ostia fosse un simbolo e non il vero corpo di Cristo, Farinelli ha dichiarato che proprio la scelta culturale che fu operata a quel tempo ( il vero corpo vs il simbolo) è da ritenersi l'origine di un'unica forma di pensiero occidentale moderno cristiano e illuminista . Per questa ragione, ha concluso, oggi noi crediamo alle mappe quali rappresentazioni del mondo…

      Passiamo al libro. Presentandosi al lettore come una cosmogonia laica e moderna nata dalle argomentazioni incrociate del geografo, dello storico della scienza e del filosofo, e tenendo sempre in considerazione miti, leggende e metafore delle varie Tradizioni, questo densissimo volumetto offre un'affascinante chiave di lettura per la nostra percezione dello spazio, coniugando dati scientifici (la rivoluzione copernicana) e simboli (la testa del Battista sul vassoio di Salomè), e tracciando la storia della formazione della doppia identità della Terra come sfera (globo) e come tavola (mappa o carta). Ne emerge un quadro del mondo dalle molteplici sfaccettature: ora struttura infinita dove l'uomo – e la Terra – occupano una posizione marginale, ora semplice estensione da misurare e percorrere, ora luogo “inventato” (e continuamente da reinventare), ove sopra e sotto, fissità e moto, luce e tenebre, terra e acqua dialogano da sempre con il logos e con l' “arte di dar forma”.

      Trovano spazio in queste pagine Ermete Trismegisto (“la Terra è copia del Cielo”), Polifemo, Ludwig Wittgenstein, Anassimandro, Elias Canetti, Hobbes, Tommaso Moro, Dante, Kant, Erasmo da Rotterdam, McLuhan e molti altri: purtroppo manca un indice dei nomi, e anche una bibliografia, ma è piacevole percorrere la storia del nostro pensiero occidentale (e della nostra mitologia) con tanta abbondanza di dati e considerazioni. Ho detto “occidentale”, ma forse sarebbe più corretto restringere ulteriormente il campo all'Europa e al bacino del Mediterraneo, in quanto, a parte un aneddoto sui bramini e l'accenno all'inventore del “villaggio globale”, non si esce quasi mai dai dintorni di questo territorio. Mancano infatti non solo l'Oriente, ma anche i miti di creazione dei nativi americani, così come sono assenti dalle argomentazioni l'aspetto totemico e tribale in relazione con l'invenzione della Terra.

      Il libro resta comunque estremamente colto, interessante e assolutamente centrale per capire “quale sia il centro, e chi siamo”. Farinelli usa queste parole ricorrendo alla bellissima metafora finale del girotondo (gioco infantile, ma non solo…) in cui la filastrocca “Giro giro tondo, quant'è bello il mondo” continuava volendo all'infinito, “con un seguito di frasi apparentemente prive di senso, in cui si susseguivano per immediatamente dileguarsi lune, numeri, galline e così via. Non lo sapevamo, ma tale discontinuo, eterogeneo, disarticolato linguaggio era (e resta) la mimesi perfetta e consapevole del mondo e del suo funzionamento. Oppure vi era la versione rapida […] ‘Giro giro tondo, com'è bello il mondo – casca la Terra, tutti giù per terra!' […] e ci si abbassava all'unisono a toccare con ambedue le mani e ognuno per sé la terra – che era una tavola piatta, liscia, continua, fatta tutta della stessa sostanza, e che garantiva in tal modo la nostra stabilità e identità” (pp. 148-149). (a.c.)

 

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