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La storia epica di un pianeta fortunato o una grande occasione perduta?

 

Uscito nelle sale cinematografiche il 22 aprile 2009 in occasione dell'Earth Day, il film-documentario Earth. La nostra terra , prodotto dalla giovane etichetta Disneynature per la regia di Alastair Fothergill e Mark Linfield e definito in più siti “la storia epica di un pianeta fortunato”, promette di celebrare le meraviglie del nostro pianeta, “l'unico abitato dell'universo” (cito dal film), accennando solo vagamente qua e là ai mutamenti climatici in atto. Pur riconoscendo encomiabile l'interesse ambientale che evidentemente anima la nuova sotto-etichetta Disney, non può non destare in me una certa perplessità la superficialità con cui le tematiche a esso connesse sono affrontate, per non parlare del suddetto assunto (appunto, l'unicità dell'uomo nell'universo), che suona arrogante e tuttora non supportato da prove scientifiche.

  A parte la prevedibile difficoltà, in casa Disney, a resistere a tentazioni esecrabili quali riesumare scene e atmosfere già viste in abbondanza nella cinematografia d'animazione d.o.c. (da Dumbo a Il re leone ), si osserva in primo luogo il messaggio assolutamente diseducativo del film, che incredibilmente non fa alcuna menzione né alla presenza dell'uomo né - il che è ancora più grave - alle sue gravi responsabilità riguardo a fenomeni quali lo scioglimento dei ghiacci, la deforestazione, l'effetto serra. Eppure almeno dal 1979, con l'enunciazione dell'ipotesi Gaia da parte dello scienziato inglese James Lovelack (“ Gaia. A New Look at Life on Earth”), sappiamo benissimo che nel bene e nel male uomo e Terra sono collegati, interdipendenti, anzi esistono in reciproca sincronia (che non significa sintonia). Cito Lovelack non per il suo ottimismo sui meccanismi di autoregolamentazione del pianeta, oggi in parte smentito, ma per l'innegabile verità contenuta nella sua visione di un percorso - e quindi di un probabile destino - comune, ovvero di una fisiologia umano-planetaria di tipo olistico. Tra l'altro, questa teoria ispirò SimEarth , un videogioco di simulazione ideato da Will Wright e pubblicato nel 1990 dalla Maxis , in cui il giocatore controlla il nostro pianeta . Lo scopo del gioco è quello di creare la vita in un mondo sterile, partendo dai semplici microrganismi unicellulari fino alla creazione di una civiltà avanzata sul pianeta.

  In realtà l'assenza dell'uomo nel film della Disney, compensata solo dalla presenza di molti animali (cosa che spero farà piacere almeno agli animalisti), non è controbilanciata nemmeno da una rappresentazione credibile del pianeta come un organismo vivo : per lo più vediamo paesaggi mozzafiato e scenari bellissimi ma privi di anima, privi di quello “spirito” che non può essere liquidato con l'espressione “il ciclo della vita” a indicare l'uccisione della gazzella da parte del ghepardo o l'alternarsi delle stagioni. Eppure sarebbe stato interessante vedere un po' più “vivo” - magari anche sofferente, come di fatto è - questo nostro pianeta che è qui protagonista silenzioso e quasi imbavagliato. Che la Terra sia un organismo vivente lo si supponeva già molto tempo prima di Lovelack: senza scendere fino al concetto di “Grande Madre” e agli archetipi delle antiche civiltà tribali, basti pensare che Sir Arthur Conan Doyle, medico e scrittore (nonché creatore di Sherlock Holmes) vissuto tra la fine dell'800 e i primi decenni del 900, scrisse un breve racconto intitolato ''When the World Screamed,'' (Quando la Terra gridò”, 1929) in cui il protagonista suscitava una reazione violenta e cosciente da parte della Madre Terra perforando la sua crosta di granito con una moderna trivella. A maggior ragione, il fatto di non aver rappresentato e narrato oggi questa nostra Terra dandole maggiore voce è sicuramente una grande occasione perduta.

  Il film sembra ignorare completamente anche tutto quello che è stato fatto prima nel cinema, a partire da quello splendido capolavoro che fu Koyaanisqatsi , il celebre film- documentario del 1982 diretto da Godfrey Reggio . Sia nei contenuti, sia nelle sue formule artistiche, sia nell'indimenticabile colonna sonora di Philip Glass (senza nulla togliere alla bravura della Filarmonica di Berlino scelta dalla Disney) quel film era veramente innovativo e colpiva non solo l'immaginazione ma le coscienze, mentre Earth rimane sempre in superficie. Inoltre la totale assenza di dialoghi in Koyaanisqatsi , a sottolineare l'inadeguatezza della parola a descrivere e narrare lo stato e la storia del pianeta, è qui sostituita da una voce narrante che - a parte la quanto mai discutibile promozione di Paolo Bonolis a doppiatore nella versione italiana - è dettata da ovvie esigenze di imbonimento televisivo. E' vero che anche nella versione originale la voce off è maschile (e qui azzardo un'ulteriore obiezione - non sarebbe stata più politicamente corretta un'alternanza di voce maschile e femminile?), ma siamo su altri livelli: si tratta dell'ultrasettantenne James Earl Jones, attore e figlio d'arte, autorevole e profonda voce recitante de “Il corvo” di Poe, nonché di Darth Vader in molti episodi di Guerre stellari … devo continuare?

  Infine, la scelta (che ormai non è più originale) di mostrare il backstage mentre scorrono i titoli di coda è apprezzabile in quanto si vedono finalmente degli esseri umani: sono gli operatori che hanno effettuato le riprese (mentre in tutto il film si vedono solo animali e piante, come se il genere umano avesse l'unico ruolo di osservatore, con la sola eccezione di Jones / Bonolis che ha voce ma non corpo). Mi sarei però almeno aspettata che, fra le immagini del backstage , si vedesse anche una pietosa mano umana offrire un po' di cibo al povero orso bianco (una specie che, secondo uno studio condotto da ambientalisti canadesi, rischia l'estinzione entro 3 anni) che muore per davvero di fame e di stenti accanto a un'indifferente tribù di trichechi che tanto ci somiglia. (a.c.)

 

 

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