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Memoria e genius loci

 

 

Chi immaginerebbe mai che un libro scritto da un docente di storia contemporanea e dedicato (cito dal sottotitolo) agli “usi e abusi della storia nella vita pubblica italiana” possa contenere pagine illuminanti e intense su argomenti quali le modificazioni del paesaggio o i “linguaggi della dimora”? E' il caso di Vuoti di memoria (Laterza 2007, pp.141), un saggio recente a opera di Stefano Pivato (preside della facoltà di Lingue dell' Università di Urbino nonché assessore alla Cultura di Rimini e autore di dotti e finissimi divertissements intellettuali fra cui Bella ciao e La storia leggera ) che si muove agilmente nel panorama socioculturale italiano lungo il filo dell'uso pubblico della memoria e attraverso le dinamiche più insidiose della perdita della memoria.

    Pur concentrandosi maggiormente su ambiti quali le nuove forme di comunicazione, il dibattito politico, i movimenti giovanili, il “metabolismo accelerato dell'era telematica”, la retorica pubblicitaria o il neoconservatorismo cattolico, Vuoti di memoria offre al lettore alcune pagine cruciali sul rapporto fra le persone e l'ambiente. Mi riferisco in particolar modo al capitolo 4 (“Luoghi della memoria e luoghi dell'oblio”), ove si osserva come “le profonde mutazioni intervenute nel paesaggio, a partire dal boom economico, non sono state secondarie nelle modificazioni del rapporto con la natura”. Sarebbe venuta cioè a mancare gradualmente la percezione del genius loci , “vale a dire l'identificazione con l'ambiente circostante”, un'identificazione “che contiene le stratificazioni della memoria”.

Vedere il paesaggio come una somma di legami di appartenenza fra individui e di rapporti col passato è sicuramente una presa di coscienza cruciale e di grande rilevanza politica e culturale in un momento in cui, citando Norberg-Schulz ( Genius loci , 1981), la maggior parte degli edifici moderni esiste in un “nulla”, oppure, citando Augé ( Rovine e macerie , 2004), è caratterizzata dal tipico spaesamento che contraddistingue i “non luoghi”. Le trasformazioni del paesaggio, invece, possono e devono incidere sulla memoria collettiva (e viceversa), come hanno bene evidenziato, fra gli altri, un Tonino Guerra o un Pier Paolo Pasolini.

    Dagli anni ‘60 in poi assistiamo invece a un'omologazione nel paesaggio urbano che simbolicamente investe anche i colori: “Il colore rosso del mattone, il grigio del cemento armato e le trasparenze del vetrocemento hanno reso le abitazioni eguali a ogni latitudine”, cosicché gli spazi risultano uguali ovunque, e dunque “privi di memoria”.

Fra i molti e più importanti “vuoti di memoria” di cui ci parla questo libro, i “vuoti” riferiti al paesaggio ci offrono l'opportunità di riflettere su una delle esigenze primarie del/la cittadino/a che è proprio quella di lasciare un segno, una traccia visibile del suo passaggio e della sua appartenenza. “Marcare il territorio” non è tipico solo degli animali ma anche degli esseri umani: l'hanno fatto da sempre, con steccati e bandiere, totem o dolmen, obelischi o graffiti. Del resto l'aveva già detto magistralmente Italo Calvino nelle Cosmicomiche (1965): come Qfwfq, dobbiamo fare attenzione affinché il “segno nello spazio” che egli traccia nel cielo nel racconto omonimo non diventi a poco a poco, perso in un groviglio anonimo di altri segni, un segno qualunque, non più riconoscibile nemmeno da chi l'ha tracciato: “Lo spazio, senza segno, era tornato una voragine di vuoto senza principio né fine, nauseante, in cui tutto – me compreso – si perdeva”. (a.c.)

 

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